Ogni tentativo di interpretare una lingua differente dalla propria è un incontro-scontro: agli occhi dello straniero, la trasparente chiarezza dello strumento linguistico si converte in fitta opacità; il ricorso alla traduzione è dunque essenziale, ma genera – inevitabilmente – nervosi equivoci, immagini alterate, silenzi insoddisfatti. Eppure questo sforzo decifratorio, pur così frustrato, accende un movimento di pensiero che, proprio nel conflitto che produce, concede una straordinaria occasione di incontro: non è infatti la traduzione l’approdo finale, ma il processo di giudizio che si è attivato. Torrisi tenta di avvicinarsi alla cultura coreana ma, agli occhi di un occidentale, la lingua di quel popolo appare un singolare mosaico di segni informi e confusi. Nel corso delle sue ricerche, comprende, tramite una traduzione estemporanea, che una sezione di un sito coreano in difesa dei diritti LGBTQI+ contiene storie di coming out. Ne è attratto e incuriosito. Si affida a un attendibile programma di traduzione e dà a quei segni inaccessibili una veste familiare. La restituzione in italiano è, in molti punti, prevedibilmente inadeguata, ma, nel suo senso complessivo, è in grado di schiudergli quell’incanto che aspettava. Così quel senso di estraneazione linguistica e più genericamente culturale cede improvvisamente il passo a un bisogno - tumultuoso e delicato al contempo - di immergersi nelle travagliate storie interiori dei protagonisti, di condividerne l’esperienza dello scacco e della redenzione, di partecipare della loro tensione verso un altrove che salvi. E dall’urgenza di conoscere per parlarne Torrisi matura il passo successivo: parlarne, pur da occidentale, pur da italiano, per conoscere e riconoscere, in quei vissuti particolari, slanci, aspirazioni, desideri inequivocabilmente umani, innegabilmente universali, esito a cui tende in tutti i suoi lavori. Le parole di cui dispone per parlarne sono però ancora ingabbiate in una traduzione imprecisa, pertanto decide di riordinarne alcuni elementi, accorcia, ricompone, raccorda, fino a trasformare i trascurati automatismi del traduttore in rivelazioni di pienezza esistenziale: Ho indossato gli stivali al contrario - titolo dell’opera - si riferisce infatti all’esperienza della leva militare - pratica in uso anche in Italia fino al 2005 e oggi non più obbligatoria - ma esprime tutta la lacerazione interiore dell’uomo “al contrario”, che disturba il sogno del modello perfetto di mascolinità; e ancora espressioni come Siamo i senza potere, che un parlante italiano non impiegherebbe, assumono una straordinaria pregnanza di significato, comunicando l'intensità di un’energia privata di ogni forma di appagamento. L’esperienza di traduzione, nel momento della ricomposizione in lingua italiana, diventa quindi ragionamento ed emozione, e niente può aprire ad una cultura altra se non queste due chiavi. Adesso l’artista chiede lo stesso impegno a chi leggerà le sue frasi in versione non originale: non sia una traduzione distratta, ma una promessa di reciproco incontro.

TESTO SCRITTO DA
DANIELA MARIA SORBELLO

Ho indossato gli stivali al contrario
Installazione pubblica
Seoul - 2024

Il progetto è stato voluto e reso possibile da Leegani